Nottola di Minerva
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NOTTOLA  DI   MINERVA

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PHILΩ  WEB - @NOTTOLINA
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"[...] la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. […] La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo"
Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Prefazione

December 04th, 2023

12/4/2023

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Caffè filosofico. Riflessioni sulla bellezza

3/30/2023

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Dopo il caffè filosofico sul Tempo, il 1° aprile sarà la volta della Bellezza: riflessioni tra filosofia e musica presso Palazzo Piatti, Vetralla (VT), il 1° aprile 2023 per l'associazione OperaExtravaganza.
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Guerra e pace. E' possibile eliminare la guerra?

3/6/2022

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I drammatici episodi della guerra in Ucraina, scoppiata il 24 febbraio scorso, ci riportano in una dimensione fortemente critica che fa retrocedere la storia d'Europa a scenari che pensavamo aver arginato dopo il secondo conflitto mondiale. Inoltre, i processi di globalizzazione e lo sviluppo tecnologico-informatico in cui siamo oggi immersi innescano scenari nuovi, e forse ancora più allarmanti.
Rovistando nella storia, nelle analisi pregresse di chi ha cercato prima di noi di non arrendersi alla costruzione di dinamiche pacifiche e distese per il bene dell'umanità e della convivenza su questo pianeta, ripercorriamo l’analisi che hanno tentato menti più illuminate delle nostre: per esempio il carteggio del 1933 tra Sigmund Freud e Albert Einstein intitolato, proprio, “Perché la guerra?”.
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Riproponiamo liberamente alcune parti di un articolo di Teresa Simeone del 1° marzo 2022 uscito su MicroMega (link - https://www.micromega.net/perche-la-guerra/).
Nel 1932 la Società delle Nazioni invita l’Istituto Internazionale per la Cooperazione Intellettuale a un confronto aperto ai più importanti esponenti del mondo culturale del tempo: vi partecipano, tra gli altri, Johan Huizinga, Aldous Huxley, Julien Benda, Johan Bojer, Tsai Yuan Pei. Il carteggio più noto è quello, pubblicato un anno dopo, col titolo Perché la guerra?, tra Sigmund Freud e Albert Einstein.
Freud già si era espresso nel dicembre del 1914 in un'altra lettera, in cui aveva ribadito come la psicoanalisi fosse giunta alla conclusione che “gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono scomparsi ma continuano ad esistere, sebbene allo stato represso, nell’inconscio degli individui”, pronti a riemergere alla prima occasione. Il nostro intelletto, continuava, è debole, gingillo e strumento delle nostre emozioni, e noi stessi siamo obbligati ad agire “intelligentemente o stupidamente”, a seconda del volere e delle resistenze esterne.
​Ed ecco 
“le crudeltà e le ingiustizie, di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui esse giudicano le proprie menzogne, le proprie iniquità e quelle dei propri nemici”, e l’impossibilità per tutti di avere un giudizio sereno e veramente libero. [...]
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Quando nel 1932 Einstein invita Freud a confrontarsi con lui, la domanda che lo scenziato gli pone è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? 
E com’è possibile che una minoranza interessata soltanto ad arricchirsi e che vede nella guerra l’occasione per promuovere i propri interessi riesca ad asservire la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere?
Naturalmente, sottolinea Einstein, essa ha alcuni strumenti forti come la stampa, la scuola e le organizzazioni religiose e, ciononostante, rimane l’interrogativo su come il popolo si lasci infiammare fino al sacrificio di sé.
Una risposta è che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere (Thanatos) che rimane latente in condizioni di normalità e che emerge in situazioni eccezionali: a questo punto sarebbe possibile dirigere l’evoluzione psichica in modo da rendere gli uomini capaci di resistere a queste spinte?
Einstein anticipa anche la sua personale posizione, augurandosi che gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre i conflitti che sorgano tra loro. Naturalmente tale organizzazione internazionale avrebbe efficacia solo nella misura in cui avesse il potere effettivo di imporre il rispetto delle sue leggi e questo implicherebbe che ogni singolo Stato rinunciasse a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire della sua sovranità. Il che è il problema di ogni organismo del genere, come abbiamo assistito anche noi in questi anni di sovranismo esasperato.
La risposta di Freud riprende la critica alle organizzazioni come la Società delle Nazioni che non dispongono di forza propria benché il progetto wilsoniano sia stato un tentativo coraggioso di acquisire l’autorità mediante il richiamo a principi ideali. Per quanto riguarda le spinte alla base dei comportamenti conflittuali dell’essere umano, esse sono di due sole specie: “quelle che tendono a conservare e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Simposio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità – e quelle che tendono a distruggere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.” Entrambe sono presenti e indispensabili perché la vita si basa sul loro concorso e contrasto. Le pulsioni erotiche rappresentano gli sforzi verso la vita, quelle di morte la distruzione verso se stessi e verso l’esterno. Non c’è speranza di sopprimere le tendenze aggressive degli uomini: possono solo essere deviate in modo che non portino alla guerra.
Si può cercare di creare legami emotivi, di solidarietà tra gli uomini per impedirne la deflagrazione ma è difficile da ottenere.
L’unica soluzione sarebbe assoggettare queste pulsioni alla ragione, sarebbe rafforzare l’intelletto, soprattutto avere un atteggiamento più civile e considerare il giustificato timore degli effetti di una guerra futura.
Una copia di questa sezione del carteggio può essere letta qui, sul sito dell'Istituto italiano per gli studi filosofici (link - ​http://www.iisf.it/discorsi/einstein/carteggio.htm).
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Il gioco dei potenti continua e il ​16 febbraio 1955 il filosofo inglese Bertrand Russell, 83 anni, premio Nobel per la letteratura 1950, turbato, scrive una lettera ad Albert Einstein: «Penso che eminenti uomini di scienza dovrebbero fare qualcosa di spettacolare per aprire gli occhi ai governi sui disastri che possono verificarsi». Russell allude al problema nucleare, che in quegli anni – in quei mesi – sta registrando una forte accelerazione.
​fonte - Università di Padova, Bolive (link - ilbolive.unipd.it/it/news/manifesto-einsteinrussell-scongiurare-guerra).
Albert Einstein, 76 anni, premio Nobel per la fisica 1921 e, probabilmente, lo scienziato più famoso di ogni tempo, risponde in capo a cinque giorni. Non meno turbato, il tedesco invia il 16 febbraio una lettera a Bertrand Russell proponendo una «dichiarazione pubblica» che loro due e altri eminenti uomini di scienza avrebbero potuto firmare.
Cosa rende inquieti quei due anziani uomini di scienza, pacifisti conclamati?
Beh, il fatto che a partire dal 1952, infatti, le strategie nucleari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, sono mutate radicalmente. I fattori di novità nel panorama delle armi atomiche sono ormai così innumerevoli e così profondi che il rischio di una guerra nucleare totale in grado di distruggere gran parte dell’umanità e l’intera civiltà umana diventa, per la prima volta nella storia, un rischio concreto. 
I fattori di novità riguardano la proliferazione, la crescita incontrollata e praticamente illimitata degli arsenali, il dispiego a largo raggio delle armi, l’uso dei sommergibili atomici e, soprattutto, l’irruzione sulla scena dei missili in grado di trasportare in pochi minuti testate atomiche in ogni parte del mondo.
Che esista un problema concreto di proliferazione nucleare orizzontale lo dimostra la Gran Bretagna, che, proprio nel 1952, mette a punto le sue prime armi a fissione. A partire da questo momento, l’arma atomica non appartiene solo ai paesi leader, Usa e Urss, dei due schieramenti geopolitico-militari contrapposti, l’Ovest capitalistico e l’Est comunista. Negli anni a venire molti altri paesi entreranno a far parte del club nucleare. [...]
In poche parole: la guerra nucleare totale è diventata una tragica possibilità. E sia il pacifista Bertrand Russell che il pacifista Albert Einstein in quel febbraio 1955 ne hanno lucida consapevolezza. Per questo decidono di reagire con «qualcosa di spettacolare». Ora sembrerebbe strano che ciò che di più spettacolare riescono a immaginare quei due sia una «dichiarazione pubblica». Ma hanno ancora una volta ragione: scritta e firmata da loro la «dichiarazione pubblica» diventerà tanto famosa quanto influente [...].
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Quello che diventerà noto come il Manifesto Einstein-Russell viene reso pubblico due mesi dopo, il 9 luglio 1955, dall’inglese. E diventerà immediatamente il manifesto dei pacifisti impegnati a scongiurare la guerra nucleare.
Non solo dei pacifisti, in realtà. Come dice Wittner, il manifesto ha contribuito a creare una cultura diffusa – anche tra i politici, anche tra i militari – per la quale l’arma nucleare è per l’appunto un tabù. Uno strumento che al massimo può essere brandito, ma mai utilizzato. Michail Gorbaciov, in un’intervista a Wittner, sosterrà di essere stato profondamente influenzato dalle idee pacifiste di Einstein e Russell quando, nel 1987, propose al presidente americano Ronald Reagan di abolire i loro rispettivi arsenali nucleari.
Il Manifesto ebbe conseguenze pratiche immediate. È facendo riferimento a esso che, nel 1957, nacquero le Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il cui scopo principale era (ed è) la costruzione della pace e, in particolare, il disarmo nucleare. Le Pugwash Conferences hanno ottenuto il Premio Nobel per la Pace nel 1995. A ritirare il premio fu il fisico teorico italiano Francesco Calogero, segretario generale dell’organizzazione. Oggi la carica è detenuta da un altro fisico teorico italiano, Paolo Cotta-Ramusino. 
Il messaggio del Manifesto, tuttavia, è ancora oggi drammaticamente attuale. Il processo di disarmo atomico tra USA e l’erede dell’URSS, la Russia, si è pressoché arrestato. Mentre nel mondo esistono altre tre potenze nucleari “ufficiali” (Cina, Francia e Regno Unito) e altre quattro “non ufficiali” (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord).
Conviene dunque rileggerlo, quel manifesto, per trovare nuovi stimoli a perseguire l’idea che era del primo segretario generale del Pugwash (anche lui Nobel per la Pace nel 1995), Joseph Rotblat: un mondo finalmente libero dalle armi nucleari. 
È un obiettivo che oggi appare lontano. Ma che è irrinunciabile per donne e uomini che, come Albert Einstein, sono «rimasti sani di mente in un mondo pazzo».
Qui una copia del manifesto - pdf
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Darwin e il positivismo evoluzionistico

2/20/2022

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Una visione rivoluzionaria della natura e dell'uomo

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Charles Darwin
Darwin, biologo scienziato tra i più illustri del XIX sec., ha fortemente influenzato il dibattito filosofico contemporaneo con il suo concetto di evoluzione delle specie, in quanto ha profondamente scosso due convinzioni fortemente radicate della cultura occidentale:
a) la convinzione religiosa della superiorità e diversità dell'uomo rispetto alle altre creature, poiché creato ad immagine e somiglianza di Dio, come vuole la Bibbia;
b) la convinzione scientifica che non sarebbe mai stato possibile conoscere l'origine dell'uomo poiché ogni specie è fissa e immutabile.
​Nato nel 1809 vicino a Birmingham, è inviato dal padre a studiare a Cambridge dove frequentò le lezioni di botanica. Nel 1831 si imbarcò, come naturalista, sul veliero militare inglese, il Beagle, su cui rimase per 5 anni navigando i mari del sud e annotando le sue osservazioni sul diario  futura pubblicazione del Viaggio di un naturalista attorno al mondo (1839).
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Nel 1859 uscì L'origine della specie con cui si affermò al grande pubblico per le sue scoperte. Discendenza dell'uomo è del 1871; Espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali del 1872. Morì a Londra nel 1882.
Dalle sue osservazioni Darwin deriva che le specie viventi sono caratterizzate da un processo di trasformazione che, da L'origine dell'uomo in poi, definisce "evoluzione".
L'evoluzione
Alla base della sua teoria pone due leggi fondamentali: la lotta per la vita, secondo cui tutti gli individui della stessa specie sono perennemente in lotta per la sopravvivenza; e la selezione naturale, secondo cui ogni individuo si differenzia casualmente per impercettibili variazioni genetiche, che l'ambiente selezionerà in base alle caratteristiche più adatte trasmettendole per ereditarietà. Secondo Darwin i mutamenti avvengono secondo un progresso biologico lento, ma inevitabile.
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Ciò che regola le variazioni non avviene secondo un ordine prestabilito, ma secondo casualità, seppure con conseguenze razionalmente prevedibili; alcune variazioni permettono all'individuo maggiore adattabilità e sopravvivenza, favorendo altresì la trasmissione dei geni "buoni" a discapito di quelli inefficaci.
Darwin, formulando che le specie viventi si evolvessero, andava a contrastare, come anticipato da J.B. Lamarck (1744-1829), la tradizionale teoria della stabilità della specie, meglio nota come "fissismo". Rispetto a Lamark, però, Darwin non era d'accordo ad attribuire al solo condizionamento ambientale il processo trasformativo, piuttosto comprendere i meccanismi di sopravvivenza dovuti ai cambiamenti ambientali.
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Noto è l'esempio della giraffa: se per Lamarck l'allungamento del collo è il risultato dello sforzo costante di alcuni individui della specie a raggiungere le foglie più alte per la nutrizione, per Darwin le giraffe nascono dapprima casualmente con colli di diversa lunghezza e solo successivamente alla modifica ambientale, come la sparizione degli alberi a foglie basse, le giraffe dal collo lungo sopravvivono rispetto alle altre perché avvantaggiate.
In sintesi, se per Lamarck le variazioni nella specie sono una conseguenza dell'adattamento ambientale, per Darwin, invece, sono precedenti all'adattamento in quanto prodotte casualmente dalla natura, mentre è l'ambiente che opera la selezione naturale.
Allo stesso modo, anche gli uomini sono soggetti agli stessi processi evolutivi (La discendenza dell'uomo, 1871), seppure tra i mammiferi più elevati. L'uomo, al pari delle altre scimmie antropomorfe, deriverebbe da un antenato comune. Ciò chiarisce anche che Darwin non affermò mai che l'uomo derivasse dalle scimmie esistenti. 
​In ogni caso il suo pensiero fu dirompente poiché mise in discussione il principio dei cristiani tradizionalisti secondo cui, come leggiamo nella Bibbia, l'uomo è creato a "immagine e somiglianza di Dio" e il ruolo provvidente di Dio nell'universo ora smentito da un processo evolutivo fatto di prove ed errori voluti dal caso. 
Se l'evoluzionismo darwiniano fu, nell'ambito della biologia, una rivoluzione copernicana, purtroppo in ambito sociale fu travisato e strumentalizzato a legittimare il colonialismo e l'imperialismo dell'epoca, nonché nazionalismi e razzismo innalzando popoli superiori e migliori, rispetto a popoli ritenuti inferiori, costretti a sottomettersi.
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Darwin rifiutò questa interpretazione della sua teoria poiché errata, sia perché non è vero che in natura sopravvivono i più forti, ma solo le specie che sanno meglio adattarsi all'ambiente; sia perché non sempre la lotta è ricompensata, piuttosto lo è la collaborazione degli individui o della specie organizzati in gruppi.
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La Belle époque e la fine di un'illusione

9/27/2021

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Con l'espressione belle époque, cioè "bella epoca", si intende il periodo compreso fra la fine del XIX secolo e l'inizio della prima guerra mondiale (1914), un periodo di pace - dopo la guerra franco-prussiana - che, seppure attraversato da tensioni sociali e politiche, ha alimentato il mito della spensieratezza borghese, della creatività artistica, della fiducia nella scienza e nel progresso.
Centro della cultura della Belle époque fu Parigi, la cosiddetta villa lumiére appena ristrutturata da Haussmann. La borghesia parigina viveva in uno spirito di leggerezza, arricchita dal nuovo progresso industriale e convinta della durevolezza della propria condizione sociale.
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Abiti alla moda durante la Belle époque, 1910
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Henri de Toulouse-Lautrec, Al Moulin Rouge, 1892/95

Anche Vienna, capitale dell'impero e del valzer, viveva una stagione di grande splendore, quando nel 1914 la prima guerra mondiale pose fine a questa illusione di benessere e fiducia cieca nell'ottimismo borghese.
La Belle époque è l'espressione della nascente società di massa, un insieme omogeneo, omologato negli usi, nelle abitudini, nei consumi e nella moda, formato da individui (uomo-massa) che scompaiono rispetto al gruppo, nuovo e più importante soggetto politico e civile.
Sono state le trasformazioni politiche, economiche e culturali della seconda rivoluzione industriale a produrre una società così uniformata ed omogenea: alcuni vi hanno colto segnali positivi di benessere e apertura democratica, altri vi hanno letto l'affermazione di un processo di appiattimento delle personalità e delle libere scelte.
La produzione di massa, dovuta alla forte industrializzazione acuita con la catena di montaggio, tra taylorismo e fordismo, ha permesso l'introduzione su larga scala di prodotti che cambiarono i modi di vita, gli obiettivi e le ambizioni della società. 
Innanzitutto, attraverso l'automobile, nuovo status symbol per le classi abbienti, si introduce un nuovo culto, quello della velocità altresì simbolo di modernità e avanguardia. Attraverso la pubblicità si sfrutta il bisogno di possedere l'oggetto per esibirlo a prova del proprio prestigio sociale.
Dietro il mito del benessere e della cieca fiducia nella scienza e nel progresso, una massa di diseredati, finora nell'ombra politica e senza diritti, entra in scena: è il "Quarto stato che avanza", il proletariato, ingranaggio essenziale e motore della rivoluzione industriale, ben rappresentato figurativamente nell'opera omonima di Giuseppe Pellizza da Volpedo. 
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Giuseppe Pellizza da Volpedo - Il quarto stato, 1898-1901, olio su tela, Museo del Novecento di Milano
Particolarmente significativo è il messaggio lanciato dal film "Tempi moderni", pellicola del 1936 scritta, prodotta e interpretata da Charlie Chaplin.
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Charlot è un operaio di una fabbrica; la sua mansione è quella di stringere i bulloni di una catena di montaggio. I gesti ripetitivi, i ritmi disumani e spersonalizzanti della catena di montaggio minano la ragione del povero Charlot; la pausa pranzo potrebbe concedere un momento di riposo per tutti i lavoratori della fabbrica, se non che Charlot viene prescelto per sperimentare la macchina automatica da alimentazione, che dovrebbe consentire di mangiare senza interrompere il lavoro (aspetto che in una visione scientifica del lavoro produrrebbe vantaggio competitivo). L'esperimento però gli causa parecchi danni dato che il marchingegno non funziona come si aspettavano.
Le infinite ore di lavoro lo portano ad essere ossessionato al punto da immaginare che i bottoni della gonna indossata dalla segretaria siano bulloni da stringere. Egli perde così ogni controllo sulla propria mente. Con gesto liberatorio mette mano su leve e pulsanti all'interno della sala di comando del suo reparto, provocando il fermo dell'intera catena produttiva e, dopo aver spruzzato in faccia a tutti l'olio lubrificante per gli ingranaggi, Charlot sarà affidato forzatamente ad una clinica affinché venga riabilitato dall'esaurimento nervoso.
a cura di Monica Sanfilippo
​prof philoweb @ nottolina
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L'Italia dopo l'unità

9/25/2021

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​L'età della destra (1861-1876)

Una volta "fatta l'Italia" era stato ben più difficile "fare gli italiani". La prematura scomparsa di Cavour (1861) privò il paese dell'artefice dell'unità politica, proprio quando la sua opera sarebbe stata altrettanto indispensabile per il consolidamento del nuovo Stato.
Storia d'Italia del XX secolo di Valerio Castronuovo e Renzo De Felice, Editalia
Cavour aveva lasciato in consegna un regime costituzionale parlamentare, nato dall'intreccio fra la tradizione monarchica e il principio della sovranità popolare, un sistema rappresentativo fragile dove solo il 2% della popolazione aveva diritto di voto. Del resto il processo di annessione-unificazione, avvertito perlopiù come "guerra regia", si mostrava quale giustapposizione di realtà diverse per leggi e istituzioni, tradizioni e costumi, sviluppo economico e sociale.
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A questa frammentazione della penisola in tanti microcosmi, i governi della Destra (al potere fino al 1876) cercarono di porre rimedio mediante l'estensione a tutto il territorio nazionale del sistema di governo rigidamente centralistico, modellato su quello francese e già in vigore nel Piemonte sabaudo.
Tra gli obiettivi più urgenti fu il pareggio di bilancio che pesò sui contribuenti come un'autentica vessazione e del tutto intollerabile ai ceti più umili: fra le tasse più impopolari figurava quella sul macinato, ossia sulla macinazione dei cereali, da cui ricavare il pane, l'alimento dei poveri, varata nel maggio del 1867 e abolita soltanto nel 1880.
L'unificazione del paese si rivelò un'impresa estremamente ardua tra difficoltà e ricorrenti ondate di ribellione.
In alcune zone del Sud il governo dovette agire duramente per debellare il fenomeno del brigantaggio, alimentato tanto dal malcontento del contadini quanto dalle trame degli agenti della monarchia borbonica appena spodestata, inviando un esercito di ben 120.000 uomini.
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Uomini della banda del brigante Agostino Sacchitiello di Bisaccia, uno dei luogotenenti di Carmine Crocco (foto del 1862).

Anche quando non assunse connotazioni eversive, l'insofferenza nei confronti della politica centralista ("piemontesizzazione") rivelò non solo la sostanziale estraneità delle masse del Mezzogiorno nei confronti del nuovo Stato nazionale, ma anche l'esistenza di una "questione meridionale" che faceva emergere il divario socio-culturale tra Nord e Sud.
Il male principale di cui soffriva il meridione era il latifondo che impediva l'introduzione di più moderni sistemi di produzione. A fare le spese di questo stallo era in primo luogo la massa di contadini senza terra costretti a rapporti semifeudali e allo sfruttamento.
Un altro motivo di divisione e malessere sotto la Destra storica fu il dissidio Stato e Chiesa, che Cavour aveva sperato di risolvere con la formula separatista "libera Chiesa in libero Stato"
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Kant e la realtà tinta di rosa

9/22/2021

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Perché è un libro di filosofia per bambini, e non solo, da 8 anni in su, di Umberto Galimberti. Nell'Introduzione, l'Autore spiega come giocare con le idee permette di allargare i propri orizzonti, diventando più tolleranti, più capaci di comprendere, e quindi vivere meglio.
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Introduciamo Kant attraverso la sua sintetica, ma lucida descrizione.

GLI OCCHI DELLA RAGIONE
Immanuel Kant

Scommetto che non vedi l’ora di crescere per andare dove vuoi senza essere accompagnato da un adulto. Per Kant, però, l’unica cosa che dimostra che sei diventato grande è il coraggio di pensare da solo. Ora ci sono persone che pensano per te, come la maestra che ti dice che la Terra è tonda, o la mamma che ti dice che le verdure fanno bene. Crescerai davvero quando, avendo imparato a usare la tua testa, non lascerai che gli altri ti dicano come stanno le cose, ma ti sforzerai di conoscerle. Per Kant è l’uomo il protagonista della conoscenza, e capirlo fu la sua rivoluzione. Per conoscere qualsiasi cosa, mettiamo un fiore, c’è bisogno di due elementi: la cosa da conoscere, cioè il fiore, e qualcuno che la conosce. Prima di Kant tutti pensavano che per conoscere il fiore bisognasse analizzare solo il fiore. Invece Kant capisce che bisogna studiare come funziona chi vuole conoscere il fiore, ovvero come funziona la mente dell’uomo. Una mosca, per dire, vede a quadretti, e se volesse conoscere il fiore dovrebbe considerare che quei quadretti non stanno nei petali, ma nei suoi occhi che li vedono così. Per l’uomo è lo stesso: tu non vedi il fiore così com’è, ma lo vedi come la tua mente te lo rappresenta nello spazio e nel tempo.
Spazio e tempo, proprio come i quadretti della mosca, non stanno nel fiore, stanno negli occhi speciali della tua ragione. Conoscere per Kant vuol dire usare correttamente la ragione, quindi i suoi occhi, per vedere ciò che ci circonda. E per prima cosa dobbiamo sapere come sono fatti questi occhi.
☛ Immanuel Kant (1724-1804) è stato tra i maggiori filosofi di tutti i tempi. Il suo pensiero viene chiamato criticismo: dopo aver sollecitato l’uso della ragione (Illuminismo) invita a considerarne anche i limiti. Ragiona con Kant Immagina che su Marte un astronauta e un marziano si trovino davanti allo stesso cratere: secondo te vedrebbero la stessa cosa?

Galimberti, Umberto; Merlini, Irene; Petruccelli, Maria Luisa. Perché? (Italian Edition) (pp.139-140). 
Dopo questa introduzione, si può approfondire con la lettura 
Risposta alla domanda: Che cos'è l'Illuminismo?
Ancora un altro autore, Nigel Warburton, con il suo libro Breve storia della filosofia, può aiutare a introdurre alla filosofia di Kant.
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La realtà tinta di rosa
IMMANUEL KANT
Se indossate degli occhiali con lenti color rosa, ogni aspetto della vostra esperienza visiva risulterà colorato di rosa. Magari vi scordate che li state indossando, ma loro non smetteranno di influenzare la vostra visione. Immanuel Kant (1724-1804) pensava che tutti ci aggiriamo per il mondo comprendendolo attraverso un filtro di questo tipo. Il filtro è il nostro intelletto. Esso determina il modo in cui facciamo esperienza di tutte le cose e dà a quell’esperienza una determinata forma. Qualunque cosa percepiamo, la percepiamo come situata nel tempo e nello spazio, e riconducendo ogni fenomeno a una causa. Ma secondo Kant queste caratteristiche – tempo, spazio, relazione di causa ed effetto – non appartengono alla realtà in sé: sono un’aggiunta del nostro intelletto. Noi non abbiamo un accesso diretto alla realtà in sé, e non possiamo neppure toglierci gli occhiali e guardare le cose come sono veramente. Non possiamo liberarci di quel filtro; se ne fossimo privi, saremmo totalmente incapaci di fare qualsiasi esperienza. Dobbiamo riconoscerne la presenza e capire come esso influenzi e ‘colori’ le nostre esperienze. Kant aveva una mente assai logica e ordinata. Anche la sua vita lo era. Non prese moglie e si impose regole molto severe. Aveva ordinato alla servitù di svegliarlo ogni giorno alle cinque del mattino, per impiegare al massimo il suo tempo. Beveva un tè, fumava una pipa e iniziava a lavorare. Era estremamente produttivo e scrisse numerosi libri e articoli. Poi andava all’università, teneva lezione, tornava a casa e tutti i pomeriggi alle sedici e trenta in punto usciva a fare una passeggiata, percorrendo la strada di casa esattamente otto volte. I suoi concittadini di Königsberg (che oggi si chiama Kaliningrad) regolavano gli orologi sull’inizio della sua passeggiata. Come molti filosofi, dedicò la propria vita a cercare di capire il nostro rapporto con la realtà. Essenzialmente è questo l’argomento della metafisica, e Kant è stato uno dei più grandi metafisici della storia della filosofia. Il suo interesse verteva in particolare sui limiti della nostra conoscenza; per lui si trattava di una sorta di ossessione. Nella sua opera più famosa, la Critica della ragion pura (1781), esplorò questi limiti, spingendosi sino ai confini del comprensibile. Si tratta infatti di un’opera non certo di facile lettura: Kant stesso, a ragione, la descrive come ‘arida’ e ‘oscura’. Sono davvero pochi coloro che possono sostenere di averla pienamente compresa, perché molte delle argomentazioni risultano complesse e criptiche. Leggendola si ha la sensazione di attraversare faticosamente una fitta foresta di parole, intuendo appena la direzione in cui ci si muove e beneficiando ogni tanto di qualche squarcio di luce. Ma l’argomento centrale è abbastanza chiaro. Com’è la realtà? Kant pensava che non possiamo mai avere un quadro completo di come stanno le cose. Non conosceremo mai direttamente quello che chiama il mondo dei noumeni (Kant riprende il termine platonico derivato dal verbo greco ‘pensare’), delle cose come sono in sé, dietro le apparenze. Talvolta usa il termine ‘noumeno’ al singolare, e altre volte ‘noumeni’ al plurale, ma non avrebbe dovuto farlo: noi non possiamo sapere neppure se la realtà è una cosa o molte. A rigore, del mondo noumenico non possiamo sapere nulla, o almeno non possiamo avere conoscenza diretta. Possiamo invece conoscere il mondo fenomenico, quello di cui facciamo esperienza attraverso i nostri sensi. Guardiamo dalla finestra: ciò che vediamo è il mondo dei fenomeni – erba, automobili, cielo, edifici, e così via. Non possiamo vedere il mondo dei noumeni, solo quello dei fenomeni; il mondo dei noumeni resta nascosto dietro tutte le nostre esperienze. È la realtà a un livello più profondo. Alcuni aspetti di questa realtà, quindi, ci sfuggiranno sempre. Possiamo però, mediante il ragionamento rigoroso, raggiungere una comprensione di grado superiore rispetto a quella che ci è consentita dall’approccio puramente scientifico. La domanda principale a cui Kant intendeva rispondere con la Critica della ragion pura era: «Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?» Questa domanda probabilmente non vi dice niente. Proverò a spiegarvela; non è così difficile come sembra. La prima parola da spiegare è ‘sintetici’. Nel linguaggio filosofico di Kant, ‘sintetico’ è l’opposto di ‘analitico’. ‘Analitico’ significa ‘vero per definizione’. Ad esempio, una frase come ‘Tutti i maschi sono di sesso maschile’ è vera per definizione; sappiamo che questa affermazione è vera senza dover fare alcuna indagine sui maschi. Non abbiamo bisogno di controllare che siano tutti di sesso maschile, perché se non fossero di sesso maschile, non sarebbero maschi. Per arrivare a quella conclusione non c’è bisogno di un’indagine scientifica, potreste stare seduti in poltrona e ci arrivereste lo stesso. La parola ‘maschi’ ha in sé l’idea di ‘sesso maschile’; lo stesso vale per l’affermazione ‘Tutti i mammiferi allattano i loro piccoli’. Anche in questo caso, non avete bisogno di esaminare tutti i mammiferi per sapere che tutti allattano i piccoli, perché questo fatto è implicito nella definizione di ‘mammifero’. Se trovate un animale che sembra un mammifero, ma non allatta i piccoli, saprete che quello non è un mammifero. Alla fine, i giudizi analitici non sono altro che pure definizioni; non aggiungono nulla alle nostre conoscenze, ma si limitano a esprimere ciò che è implicito nel modo in cui abbiamo definito di una parola. La conoscenza sintetica, invece, richiede l’esperienza o l’osservazione e ci dà nuove informazioni, qualcosa che non è semplicemente contenuto nel significato delle parole o dei simboli che usiamo. Ad esempio, noi sappiamo che il gusto del limone è aspro, ma solo perché l’abbiamo assaggiato (o perché qualcun altro ce l’ha detto dopo averlo assaggiato). Non è vero per definizione che i limoni abbiano sapore aspro; è qualcosa che si impara per esperienza. Un altro giudizio sintetico potrebbe essere «Tutti i gatti hanno la coda». Si tratta di un’affermazione che ha bisogno di essere sostenuta da una ricerca perché possa essere considerata vera; non potrete dire che lo sia finché non ne avrete avuto la prova. E infatti certi gatti, i gatti dell’isola di Man, non hanno la coda. Altri gatti la coda ce l’avevano, poi l’hanno persa, e restano dei gatti. La domanda se tutti i gatti abbiano la coda ha quindi a che fare con la realtà, non con la definizione di gatto; è molto diversa dall’affermazione «Tutti i gatti sono mammiferi», che avendo a che fare con la definizione di gatto è un giudizio analitico.
Come arriviamo alla conoscenza sintetica a priori? Abbiamo visto che una conoscenza a priori è una conoscenza indipendente dall’esperienza. Sappiamo una cosa a priori, cioè prima dell’esperienza, prima di averla sperimentata. Nel Diciassettesimo e nel Diciottesimo secolo la questione se fosse possibile o meno conoscere a priori era stata argomento di dibattito. Grosso modo, gli empiristi (come Locke) sostenevano che non lo fosse; i razionalisti (come Descartes) sostenevano di sì. Quando Locke diceva che non esistono idee innate e che la mente del neonato è come una lavagna vuota, intendeva che non esistono conoscenze a priori. Da ciò sembrerebbe che ‘a priori’ e ‘analitico’ siano equivalenti (e infatti per alcuni filosofi sono termini intercambiabili). Per Kant non è così. Egli pensava che fosse possibile una conoscenza che svela verità sul mondo indipendentemente dall’esperienza. Per descriverla introdusse la categoria speciale della conoscenza sintetica a priori. Un esempio di conoscenza sintetica a priori, che usò lo stesso Kant, è l’equazione matematica 7+5=12. Secondo alcuni filosofi verità come queste sono analitiche, perché sono intrinseche alla definizione dei simboli matematici. Kant pensava che siamo in grado di sapere a priori che 7+5=12 (non abbiamo bisogno di mettere alla prova l’equazione mediante oggetti o con l’osservazione del mondo reale). Nello stesso tempo, però, essa ci fornisce nuova conoscenza: quindi è anche sintetica. Se Kant ha ragione, si tratta di una scoperta fondamentale. Prima di lui, i filosofi che indagavano la natura della realtà la trattavano semplicemente come qualcosa che sta ‘oltre’ noi e a partire dalla quale si genera la nostra esperienza. La difficoltà era come potessimo avere accesso a quella realtà per poter affermare su di essa qualcosa di significativo che fosse più di una supposizione. La grande intuizione di Kant fu che noi possiamo, grazie alla ragione, scoprire le caratteristiche della nostra mente che ‘colorano’ l’intera nostra esperienza. Sedendo in poltrona e pensando intensamente, possiamo sapere cose della realtà che devono essere per forza vere, ma non vere solo per definizione: potrebbero contenere delle nuove conoscenze. Kant pensava che, con la logica, aveva trovato l’equivalente della prova che il mondo doveva necessariamente apparire rosa ai nostri occhi. Non solo aveva dimostrato che indossiamo occhiali rosa, ma aveva fatto nuove scoperte sulle diverse gradazioni di rosa che quegli occhiali aggiungono a qualsiasi esperienza. Dopo aver risposto in un modo che ritenne soddisfacente alla domanda sul nostro rapporto con la realtà, Kant rivolse la propria attenzione alla filosofia morale.

Warburton, Nigel. Breve storia della filosofia (Italian Edition) (pp. 111-115). Salani Editore. Edizione del Kindle. 
SLIDES SINTETICHE
post a cura di Monica Sanfilippo - prof.philoweb
​@nottolina 
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Il mito della cura

9/9/2021

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​Il mito di Cura
«All’alba del mondo, la Dea Cura, mentre passeggiava pensierosa nella solitudine, arrivata sulla riva di un fiume, vide che i suoi piedi lasciavano un’impronta sull’argilla.
Cura infilò le mani in quel fango e vide che si modellava sotto le sue dita. Fece delle figure simili a sé. Vennero così perfette e belle che sembravano vere, così implorò Zeus che desse loro la Vita.
Zeus immediatamente esaudì la richiesta di Cura, per ricambiare la dedizione della Dea per tutte le volte che lo aveva assistito quando era stanco, massaggiato quando era indolenzito, ascoltato quando era preoccupato e consigliato su come alleviare le ansie dell’Universo.
“Per tutte le volte che ti sei preso cura di me, io ascolterò la tua preghiera”, disse.
Ma non appena Zeus vide la meraviglia sotto ai suoi occhi, le due forme d’argilla si muovevano e danzavano come divinità, volle appropriarsene, dando loro il nome. Nella discussione intervenne anche Gea.
Quando Cura, che amava ormai le sue creature, capì che quelli, piuttosto che abbandonare la disputa e la contesa, avrebbero distrutto la magia, corse a chiamare Crono il saggio.
Questi, dopo lunga meditazione, così sentenziò:
“Tu, Zeus, hai dato lo spirito. Alla loro morte, lo spirito tornerà a te”
“Tu, Gea, che hai dato l’argilla, alla loro morte riceverai il corpo”.
“Tu Cura ,che per prima hai creato e fatto vivere il corpo, lo possiederai finché vivrà e si chiamerà Homo perché è stato tratto dall’ humus”.
Cura era felice, ma cominciò a rendersi presto conto che quelle due creature erano mortali e fragili, debolissime e incapaci di provvedere a se stessi autonomamente e se non costantemente nutrite, sostenute, restaurate, si rompevano. Erano costantemente vittima della natura, del tempo, dei pericoli esterni e continuavano ad ammaccarsi e rompersi. Nel frattempo Zeus progettava conquiste e potere per quelle creature e Gea organizzava lavori nei campi e subordinazione delle leggi del tempo.
Per Cura, invece, cominciarono le ansie e gli affanni per mantenere in vita quegli esseri fragilissimi: non dormiva più, non mangiava più, e sopperiva ad ogni loro mancanza, soprattutto quando cimentavano nei grandi progetti divini, che loro non riuscivano a portare a termine.
Si arrabbiava con Zeus, Gea e Crono, ricordando loro che era lei a dover organizzare la vita di Homo.
Ma gli altri non rinunciarono alle loro conquiste ambiziose, così sentenziarono di lasciare a Cura solo le creature più fragili e più inclini a sfaldarsi sotto il sole e a contatto con l’acqua e il vento.
Cura fu declassata a Dea inferiore, capace solo di occuparsi di persone ansiose e angosciate, inabili e fragili, soprattutto femmine. Ma Cura non si arrese e continuò a dispensare amore e attenzioni, a proteggere dalla malinconia, dai turbamenti, dalle ingiustizie e dagli inganni del tempo, dai dolori, dalle ossessioni e dalla paura di invecchiare. Parlava alle creature con amore, intrecciava i loro capelli come fossero un canto e donava loro le leggi del mondo. Intanto gli uomini, presi in faccende di potere e superiorità, non si ricordavano più di essere fragili oggetti di fango e continuavano a uccidere e soggiogare la Natura e tutte quelle anime fragili che continuavano a tornare a Cura chiedendole conforto.
Quando gli dei tutti si resero conto dell’opera di Cura, della sua dedizione e della sua instancabilità lei ormai era fuori dal tempo e dallo spazio. Era diventata per tutti la Curandera, colei capace nel silenzio di accollarsi le ansie e gli affanni, nell’inquietudine della precarietà umana, nella sua quotidiana esposizione alle difficoltà del mondo a guarirli con il canto delle mani e l’incanto della voce».
(Higynus, "Il mito di cura", Liber Fabularum. II sec. D.C., favola numero 220).

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Liber Fabularum

Il mito di Cura è tratto da un’antica favola di Igino, scrittore (o astronomo) latino del primo secolo d.C.. In essa sono riscontrabili delle evidenti analogie con il racconto biblico racchiuso nella Genesi: «Dio allora plasmò l'uomo con la polvere della terra e soffiò sul suo volto un alito vitale. E l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 7). La favola di Igino riporta qualcosa di più, asserendo che questo essere, composto di due elementi tanto discordanti tra loro, non è riconducibile né al primo elemento (la terra) né al secondo (lo spirito), ma alle mani di chi l’ha formato: il misterioso personaggio chiamato «Cura». Se stando al racconto di Igino, la Cura precede sia lo spirito (Zeus), sia il corpo (Terra), ciò implica che nell’intimo dell’essere umano è impresso il sigillo della Cura: che la Cura si trova all’origine di ogni esistenza umana. Martin Heidegger, all’interno del paragrafo 42 di “Essere e Tempo”, riprende il racconto di Igino, offrendo una chiave di lettura filosofica del mito. L’uomo, avverte il filosofo, non è uno che “ha” cura, ma “è” Cura. L’essenza più autentica delle relazioni umane risiede “nell’aver cura” degli altri e nell’attenzione amorevole da parte degli altri. “Essere nel mondo” non vuol dire semplicemente “essere gettati nel mondo” passivamente, alla maniera neutra e impersonale, ma co-esistere, con-vivere, costruire il proprio essere attraverso una comunione di relazioni con le cose e con gli altri. “Essere nel mondo”, nell’ottica della Cura, fa emergere la dimensione dell’alterità come valore, come sacralità, come complementarietà. In questo senso per Heidegger, la Cura costituisce l’elemento essenziale “ontologico” dell’essere umano: «Tutto è cura ( Sorge)». Emerge la struttura grammaticale della relazione umana imperniata sul primato dell'altro come portatore di un nome e di un cognome: dell'altro come "esigenza etica", per dirla con Emmanuel Lévinas. Si tratta di una nuova visione dell’alterità che apre la strada al pensiero della differenza, al “primato del volto”. È la provocazione etica del dialogo e dell’accoglimento dell’altro nella propria esistenza attraverso la fondazione di una dimensione comunitaria all’interno della quale sia possibile 'vivere' del tempo dell'altro. Il tempo vero, autentico, quel tempo che- come asserisce il filosofo- teologo ebreo-polacco Abraham Joshua Heschel- è «di poco inferiore all'eternità», diventa allora il tempo dell'incontro tra due differenti alterità, il momento stesso in cui due sguardi s’incrociano, in cui il «volto» che rappresenta «il modo in cui si presenta l’altro» s’impone in tutta la sua «nudità» e attraverso una voce imperativa ingiunge con un comando che obbliga a una responsabilità: «Non ucciderai»!
È l’invocazione etica di non fagocitare l’altro all’interno del proprio io, del non ridurlo alle proprie categorie mentali, di non reputarlo un ingombro che merita di essere schiacciato perché diverso, particolare, non riducibile ai propri schemi mentali, non riassorbibile all’interno del proprio tempo spazializzato. Lévinas individua nella “parola” il modo di presentarsi dell’altro come”volto“. Il “volto” si presenta parlando.
"L’Altro si presenta quindi originariamente come volto che mi parla, interpretandolo in base al paradigma ottico della visione, che è essenzialmente “un’adeguazione dell’esteriorità all’interiorità”.
(Emmanuel Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967(1° ed. 1949); tr. it. La traccia dell’altro, a cura di F. Ciaramelli, Pironti, Napoli, 1979, pp. 271-303).
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Il «volto» rappresenta la parte più fragile di un essere umano: è un continuo appello a ‘prendersi cura’ della sua esistenza. Stando ad Emmanuel Lévinas, se si vuole uscire dal dramma dell’uomo d’oggi e della società contemporanea bisogna partire dal «volto dell’altro». Il «volto» è l'uccisione della dimensione solipsistica e autoreferenziale dell'individuo, che costringe ad ex-perire: ad uscire "fuori" dal proprio sé e a lasciarsi alterare dalla presenza dell'altro. Fare esperienza del «volto» dell'altro implica un "depotenziamento", uno svuotamento del proprio io, che porta a rinunciare alle prese di dominio e possesso sull’altro. E questo uscire non è un perdersi, ma un crescere, un aprirsi a possibilità nascoste e imprevedibili. L’evento dell’altro irrompe e prorompe nella nostra vita, esponendoci alla sua presenza e alle sue richieste. L’altro ci concerne per il comune rapporto di "parentela" che scaturisce dall’innato "senso del debito" del pathos di essere uomini: del nostro essere responsabili non solamente per noi stessi ma per tutti gli altri. Aver- Cura dell'altro comporta allora concedergli il proprio tempo dell'ascolto e della condivisione, assumendosi sulle proprie spalle l'intero bagaglio del suo patrimonio etico, fatto di richieste di rispetto, amore, solidarietà, giustizia, compassione.
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Letture per l'estate

6/6/2021

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Cosa ho consigliato ai miei studenti

Anche quest'anno, nonostante le difficoltà causate dall'emergenza sanitaria Covid-19, siamo arrivati alla fine dell'anno scolastico. Gli ultimi giorni di lezione, tra ricordi più divertenti e riflessioni più seriose dei momenti trascorsi insieme, ci si saluta guardando all'estate che sta arrivando, calda e piacevole, piena di promesse e tempo "libero".
L'invito alla lettura "sotto l'ombrellone" non tarda ad arrivare. Chi protesta c'è sempre; che vacanze sarebbero, altrimenti, ribadiscono i miei studenti, ma non demordo soprattutto nel convenire che se la lettura è piacevole ben si coniuga con l'otium.
Allora, apro il mio zaino da prof. e tiro fuori morbidamente i libri che vado a presentare. I classici del pensiero sono sottintesi, mentre le letture che seguono muovono da un intento di avvicinamento ad ampio raggio alla filosofia o alle sue questioni.
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"Il mondo di Sofia" di Jostein Gaarder, Longanesi 1994
Il libro si presenta come un viaggio nel corso della filosofia dalle sue origini fino ai giorni nostri, intervallato dall'enigmatica storia della giovane Sofia che, ricevute alcune lettere anonime, viene immersa, a sua insaputa, nel mondo della filosofia. E, inaspettatamente, sarà proprio la filosofia ad aprirle una nuova chiave interpretativa del suo mondo, non più superficiale e acritica ma consapevole e filtrata da un profondo senso critico.
Lo stile del libro è estremamente semplice e, senza pretendere di essere un manuale è sicuramente un buon mezzo per introdurre alla filosofia.
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"La meravigliosa vita dei filosofi. Da Talete a Derrida passando per Schopenhauer, la storia del pensiero come non l'avete mai vista" di Masato Tanaka, Vallardi 2018 
Oltre duecento concetti chiave della filosofia e tutti i pensatori da Talete fino ad oggi vengono ripercorsi e illustrati con sagacia e chiarezza. L’autore giapponese Masato Tanaka è riuscito a concretizzare la materia perlopiù astratta della filosofia in immagini e visioni reali, rendendo così anche i processi mentali più complessi racconti illustrati alla portata di tutti.
Tanaka crea un simpatico avatar per ogni filosofo e lo sistema su un piccolo piedistallo, mentre tiene in mano la bandiera del suo paese d’origine e pronuncia il suo insegnamento più rilevante. In poche righe, viene raccontata la sua biografia per poi passare ad una semplice ma efficace spiegazione di alcuni concetti caratterizzanti il suo singolo pensiero o quello di più figure dello stesso periodo.
Libro originale nella sua prospettiva, mira con semplicità alla divulgazione seppure divertendo stuzzicando l'intelligenza.
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​"Helgoland" di Carlo Rovelli, Adelphi 2020
Helgoland è un invito a lasciare ogni certezza, perché la ricerca della conoscenza non può nutrirsi di certezze, ma piuttosto di una sua radicale assenza. Questa, secondo Rovelli, è sempre stata 
la forza del pensiero scientifico che deve essere interpretato come pensiero della curiosità, della rivolta, del cambiamento. Helgoland è il nome di un’isola (l’Isola Sacra) del Mare del Nord, presso la quale il giovane fisico tedesco Werner Heisemberg trascorse diverso tempo. Durante questo soggiorno trovò quell’idea che permise di costruire la struttura matematica della teoria dei quanti, una delle rivoluzioni scientifiche più importanti di tutti i tempi. Insegnando, nell'anno in corso, in un indirizzo di Liceo scientifico, non potevo non consigliarlo.
​Dello stesso autore ho consigliato anche i più noti "L'ordine del tempo", 2017 e "Sette brevi lezioni di fisica", 2014, sempre della casa editrice Adelphi.
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"Le grandi domande" di Simon Blackburn, Dedalo 2010
Il libro affronta i nuclei filosofici e scientifici più significativi della storia della conoscenza introducendo altresì alle risposte dei più noti e illustri pensatori. Ecco le 20 domande cruciali le cui risposte aprono ad una più ampia comprensione di noi stessi e del mondo in cui viviamo.
SONO UN FANTASMA IN UNA MACCHINA? 
CHE COS’È LA NATURA UMANA?
SONO LIBERO?
CHE COSA SAPPIAMO?
SIAMO ANIMALI RAZIONALI?
COME POSSO MENTIRE A ME STESSO?
ESISTE LA SOCIETÀ?
RIUSCIAMO A COMPRENDERCI A VICENDA?
LE MACCHINE PENSANO?
PERCHÉ ESSERE BUONI?
È TUTTO RELATIVO?
IL TEMPO SCORRE?
PERCHÉ LE COSE VANNO AVANTI COSÌ COME SONO?
PERCHÉ ESISTE QUALCOSA PIUTTOSTO CHE NULLA?
CHE COSA RIEMPIE LO SPAZIO?
CHE COS’È LA BELLEZZA?
ABBIAMO BISOGNO DI DIO?
A CHE SERVE TUTTO QUESTO?
QUALI SONO I MIEI DIRITTI?
DOBBIAMO AVERE PAURA DELLA MORTE?
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"Breve storia della filosofia attraverso i detti dei filosofi" di Pietro Emanuele, TEA 2010
Anche questo un libro di divulgazione filosofica che si fonda sull'idea di partire dalle formule dei filosofi, cioè dalla massima sintesi del loro pensiero, per spiegare le teorie, l'ambiente e l'epoca in cui sono nate e per avvicinare senza remore ad una disciplina invece tramandata come incomprensibile e avulsa dalla realtà quotidiana.
Dello stesso autore e con lo stesso intento: 
"I cento talleri di Kant: La filosofia attraverso gli esempi dei filosofi", Salani 2003
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"Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità" di Yuval Noah Harari, ​Bompiani 2017
E non poteva mancare un riferimento alla Storia e con essa l'introduzione al nuovo sguardo con Harari. Il saggio è strutturato in modo da seguire l’evoluzione dell’uomo, sia come abitante del pianeta Terra che come essere dotato di intelligenza, l’evoluzione del corpo e della mente.
Gli argomenti trattati, che dalla storia spaziano fino alla psicologia, si schiudono con un’ottica del tutto differente da come siamo abituati a leggerli nei libri scolastici: stuzzicano il ragionamento, vertono la prospettiva, ampliano gli orizzonti, invitano alla riflessione, mostrano altre facce della storia. Essendo un libro di carattere divulgativo, il linguaggio non è tecnico, ma discorsivo, proprio per adattarsi ad un pubblico più vasto compresi gli studenti in formazione.
Per quest'anno mi fermo qui! Non mi resta per ora che augurare buone vacanze e buona lettura! Ci vediamo a settembre.
​prof. Monica da PHILOWEB
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Schopenhauer e il mondo come volontà e rappresentazione

4/20/2020

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«La vita umana é un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia».
ARTHUR SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, 57
 Il mondo come volontà e rappresentazione, scritto da Arthur Schopenhauer nel 1818, è un testo che ancora oggi ci appare nuovo e sconvolgente, per la profondità filosofica e per la capacità di toccarci l’animo. Nessun filosofo si era soffermato così a lungo sulle emozioni che si collegano ai grandi fatti della vita. È il primo libro di una filosofia esistenziale. 

Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio del 1788. Quando, cinque anni dopo, la città viene inglobata nel regno di Prussia, la famiglia si trasferisce ad Amburgo.
La giovinezza di Schopenhauer è segnata da numerosi viaggi in giro per l’Europa. Il padre, commerciante, li vede come un valido strumento di preparazione alla stessa professione. Ma in seguito alla morte del genitore, Arthur si allontana dall’ambiente mercantile per dedicarsi agli studi umanistici.
Sua madre, scrittrice, si trasferisce a Weimar, dove dà vita a un salotto letterario frequentato anche da Goethe. Il giovane Schopenhauer conosce così il padre della letteratura tedesca.
Studia filosofia prima a Gottinga, sotto la guida di Schulze, poi a Berlino, dove segue le lezioni di Fichte e di Schleiermacher.
Nel 1813 consegue la laurea a Jena e sei anni più tardi vede la luce la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, che al principio non ottiene alcun successo a causa del suo carattere pessimistico e anti-idealistico. Schopenhauer inizia a insegnare all’Università di Berlino, ma non riesce a competere con la fama di Hegel, che tiene le sue lezioni negli stessi anni.
La notorietà arriva alla metà del secolo, con la pubblicazione della raccolta di saggi Parerga e paralipomena, del 1851, in concomitanza col diffondersi di un generale clima di pessimismo dovuto ai fallimenti dei moti del ’48. Il suo pensiero comincia allora la sua circolazione per l’Europa. Il filosofo muore a Francoforte il 21 settembre del 1860.
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Clicca sull'immagine o sul link per seguire la lezione di Umberto Galimberti su Schopenhauer.
Rai Cultura - Zettel - Caffè Filosofico

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    Monica Sanfilippo


    Docente di Filosofia e Storia nei Licei 

    Counselor filosofico

    ​Musicista violista 

    ​Dottorato in storia e critica dei beni musicali

    ​Librettista

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