Nottola di Minerva
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NOTTOLA  DI   MINERVA

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"[...] la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. […] La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo"
Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Prefazione

Il mito della cura

9/9/2021

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​Il mito di Cura
«All’alba del mondo, la Dea Cura, mentre passeggiava pensierosa nella solitudine, arrivata sulla riva di un fiume, vide che i suoi piedi lasciavano un’impronta sull’argilla.
Cura infilò le mani in quel fango e vide che si modellava sotto le sue dita. Fece delle figure simili a sé. Vennero così perfette e belle che sembravano vere, così implorò Zeus che desse loro la Vita.
Zeus immediatamente esaudì la richiesta di Cura, per ricambiare la dedizione della Dea per tutte le volte che lo aveva assistito quando era stanco, massaggiato quando era indolenzito, ascoltato quando era preoccupato e consigliato su come alleviare le ansie dell’Universo.
“Per tutte le volte che ti sei preso cura di me, io ascolterò la tua preghiera”, disse.
Ma non appena Zeus vide la meraviglia sotto ai suoi occhi, le due forme d’argilla si muovevano e danzavano come divinità, volle appropriarsene, dando loro il nome. Nella discussione intervenne anche Gea.
Quando Cura, che amava ormai le sue creature, capì che quelli, piuttosto che abbandonare la disputa e la contesa, avrebbero distrutto la magia, corse a chiamare Crono il saggio.
Questi, dopo lunga meditazione, così sentenziò:
“Tu, Zeus, hai dato lo spirito. Alla loro morte, lo spirito tornerà a te”
“Tu, Gea, che hai dato l’argilla, alla loro morte riceverai il corpo”.
“Tu Cura ,che per prima hai creato e fatto vivere il corpo, lo possiederai finché vivrà e si chiamerà Homo perché è stato tratto dall’ humus”.
Cura era felice, ma cominciò a rendersi presto conto che quelle due creature erano mortali e fragili, debolissime e incapaci di provvedere a se stessi autonomamente e se non costantemente nutrite, sostenute, restaurate, si rompevano. Erano costantemente vittima della natura, del tempo, dei pericoli esterni e continuavano ad ammaccarsi e rompersi. Nel frattempo Zeus progettava conquiste e potere per quelle creature e Gea organizzava lavori nei campi e subordinazione delle leggi del tempo.
Per Cura, invece, cominciarono le ansie e gli affanni per mantenere in vita quegli esseri fragilissimi: non dormiva più, non mangiava più, e sopperiva ad ogni loro mancanza, soprattutto quando cimentavano nei grandi progetti divini, che loro non riuscivano a portare a termine.
Si arrabbiava con Zeus, Gea e Crono, ricordando loro che era lei a dover organizzare la vita di Homo.
Ma gli altri non rinunciarono alle loro conquiste ambiziose, così sentenziarono di lasciare a Cura solo le creature più fragili e più inclini a sfaldarsi sotto il sole e a contatto con l’acqua e il vento.
Cura fu declassata a Dea inferiore, capace solo di occuparsi di persone ansiose e angosciate, inabili e fragili, soprattutto femmine. Ma Cura non si arrese e continuò a dispensare amore e attenzioni, a proteggere dalla malinconia, dai turbamenti, dalle ingiustizie e dagli inganni del tempo, dai dolori, dalle ossessioni e dalla paura di invecchiare. Parlava alle creature con amore, intrecciava i loro capelli come fossero un canto e donava loro le leggi del mondo. Intanto gli uomini, presi in faccende di potere e superiorità, non si ricordavano più di essere fragili oggetti di fango e continuavano a uccidere e soggiogare la Natura e tutte quelle anime fragili che continuavano a tornare a Cura chiedendole conforto.
Quando gli dei tutti si resero conto dell’opera di Cura, della sua dedizione e della sua instancabilità lei ormai era fuori dal tempo e dallo spazio. Era diventata per tutti la Curandera, colei capace nel silenzio di accollarsi le ansie e gli affanni, nell’inquietudine della precarietà umana, nella sua quotidiana esposizione alle difficoltà del mondo a guarirli con il canto delle mani e l’incanto della voce».
(Higynus, "Il mito di cura", Liber Fabularum. II sec. D.C., favola numero 220).

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Liber Fabularum

Il mito di Cura è tratto da un’antica favola di Igino, scrittore (o astronomo) latino del primo secolo d.C.. In essa sono riscontrabili delle evidenti analogie con il racconto biblico racchiuso nella Genesi: «Dio allora plasmò l'uomo con la polvere della terra e soffiò sul suo volto un alito vitale. E l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 7). La favola di Igino riporta qualcosa di più, asserendo che questo essere, composto di due elementi tanto discordanti tra loro, non è riconducibile né al primo elemento (la terra) né al secondo (lo spirito), ma alle mani di chi l’ha formato: il misterioso personaggio chiamato «Cura». Se stando al racconto di Igino, la Cura precede sia lo spirito (Zeus), sia il corpo (Terra), ciò implica che nell’intimo dell’essere umano è impresso il sigillo della Cura: che la Cura si trova all’origine di ogni esistenza umana. Martin Heidegger, all’interno del paragrafo 42 di “Essere e Tempo”, riprende il racconto di Igino, offrendo una chiave di lettura filosofica del mito. L’uomo, avverte il filosofo, non è uno che “ha” cura, ma “è” Cura. L’essenza più autentica delle relazioni umane risiede “nell’aver cura” degli altri e nell’attenzione amorevole da parte degli altri. “Essere nel mondo” non vuol dire semplicemente “essere gettati nel mondo” passivamente, alla maniera neutra e impersonale, ma co-esistere, con-vivere, costruire il proprio essere attraverso una comunione di relazioni con le cose e con gli altri. “Essere nel mondo”, nell’ottica della Cura, fa emergere la dimensione dell’alterità come valore, come sacralità, come complementarietà. In questo senso per Heidegger, la Cura costituisce l’elemento essenziale “ontologico” dell’essere umano: «Tutto è cura ( Sorge)». Emerge la struttura grammaticale della relazione umana imperniata sul primato dell'altro come portatore di un nome e di un cognome: dell'altro come "esigenza etica", per dirla con Emmanuel Lévinas. Si tratta di una nuova visione dell’alterità che apre la strada al pensiero della differenza, al “primato del volto”. È la provocazione etica del dialogo e dell’accoglimento dell’altro nella propria esistenza attraverso la fondazione di una dimensione comunitaria all’interno della quale sia possibile 'vivere' del tempo dell'altro. Il tempo vero, autentico, quel tempo che- come asserisce il filosofo- teologo ebreo-polacco Abraham Joshua Heschel- è «di poco inferiore all'eternità», diventa allora il tempo dell'incontro tra due differenti alterità, il momento stesso in cui due sguardi s’incrociano, in cui il «volto» che rappresenta «il modo in cui si presenta l’altro» s’impone in tutta la sua «nudità» e attraverso una voce imperativa ingiunge con un comando che obbliga a una responsabilità: «Non ucciderai»!
È l’invocazione etica di non fagocitare l’altro all’interno del proprio io, del non ridurlo alle proprie categorie mentali, di non reputarlo un ingombro che merita di essere schiacciato perché diverso, particolare, non riducibile ai propri schemi mentali, non riassorbibile all’interno del proprio tempo spazializzato. Lévinas individua nella “parola” il modo di presentarsi dell’altro come”volto“. Il “volto” si presenta parlando.
"L’Altro si presenta quindi originariamente come volto che mi parla, interpretandolo in base al paradigma ottico della visione, che è essenzialmente “un’adeguazione dell’esteriorità all’interiorità”.
(Emmanuel Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967(1° ed. 1949); tr. it. La traccia dell’altro, a cura di F. Ciaramelli, Pironti, Napoli, 1979, pp. 271-303).
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Il «volto» rappresenta la parte più fragile di un essere umano: è un continuo appello a ‘prendersi cura’ della sua esistenza. Stando ad Emmanuel Lévinas, se si vuole uscire dal dramma dell’uomo d’oggi e della società contemporanea bisogna partire dal «volto dell’altro». Il «volto» è l'uccisione della dimensione solipsistica e autoreferenziale dell'individuo, che costringe ad ex-perire: ad uscire "fuori" dal proprio sé e a lasciarsi alterare dalla presenza dell'altro. Fare esperienza del «volto» dell'altro implica un "depotenziamento", uno svuotamento del proprio io, che porta a rinunciare alle prese di dominio e possesso sull’altro. E questo uscire non è un perdersi, ma un crescere, un aprirsi a possibilità nascoste e imprevedibili. L’evento dell’altro irrompe e prorompe nella nostra vita, esponendoci alla sua presenza e alle sue richieste. L’altro ci concerne per il comune rapporto di "parentela" che scaturisce dall’innato "senso del debito" del pathos di essere uomini: del nostro essere responsabili non solamente per noi stessi ma per tutti gli altri. Aver- Cura dell'altro comporta allora concedergli il proprio tempo dell'ascolto e della condivisione, assumendosi sulle proprie spalle l'intero bagaglio del suo patrimonio etico, fatto di richieste di rispetto, amore, solidarietà, giustizia, compassione.
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    Monica Sanfilippo


    Docente di Filosofia e Storia nei Licei 

    Counselor filosofico

    ​Musicista violista 

    ​Dottorato in storia e critica dei beni musicali

    ​Librettista

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